Influencer AI: moda passeggera o rivoluzione nella comunicazione dei brand?

Federica Fasoli

Pubblicato il 13 Ottobre 2025
Tempo di lettura: 5 minuti

Negli ultimi mesi si è parlato sempre più spesso di influencer virtuali. Profili gestiti da intelligenze artificiali che non esistono davvero ma interagiscono sui social come fossero persone reali: fanno shopping, danno consigli beauty, posano per campagne pubblicitarie, partecipano ai trend di TikTok e Instagram.

Non è un fenomeno del tutto nuovo (Lil Miquela è attiva dal 2016), ma qualcosa è cambiato. La tecnologia oggi è più accessibile, i modelli generativi sono più realistici, e le agenzie iniziano a inserirli nelle strategie digitali come asset veri e propri. Non solo per colpire, ma anche per convertire.

Ma funziona davvero? E soprattutto: che tipo di relazione può costruire un brand attraverso un volto che non esiste?

 

Il fascino (e la comodità) dell’influencer che non sbaglia

Influencer AI e brand

Dal punto di vista del brand, l’idea è semplice e molto seducente: un influencer AI non fa scandali, non ritratta dichiarazioni, non chiede compensi esorbitanti e non perde coerenza. Può essere costruito esattamente su misura, allineato ai valori del marchio e ottimizzato per piacere a un target specifico.

Come riportato da Influencer Intelligence in un approfondimento pubblicato nel 2024, gli influencer AI offrono “controllo totale sul messaggio, accesso 24/7, e una libertà creativa impossibile con soggetti umani”. Un’opportunità interessante soprattutto per i settori fashion, beauty e tech, dove l’immagine è centrale e l’estetica può diventare elemento narrativo.

Alcuni brand li usano già in advertising: per lanciare una nuova linea, raccontare un prodotto o semplicemente presidiare l’immaginario digitale delle nuove generazioni. Altri li stanno sperimentando anche nei contenuti organici, provando a trasformare queste identità virtuali in personaggi veri e propri.

 

Ma c’è un problema: la fiducia

Influencer AI: poca fiducia

Se l’influencer AI è perfetto, è proprio questa perfezione a renderlo poco credibile. Lo ha dimostrato una recente ricerca pubblicata da Taylor’s University e condotta in Indonesia su alcune campagne Instagram in ambito beauty: la “message reception” dei contenuti gestiti da influencer virtuali risulta significativamente più bassa rispetto a quella dei creators umani. In poche parole, il pubblico ascolta meno, si fida meno, interagisce meno.

La stessa dinamica è confermata anche da uno studio di Northeastern University: se l’utente scopre solo in un secondo momento che il volto che lo ha convinto all’acquisto era in realtà artificiale, la reazione può essere molto negativa. Crolla la fiducia, si compromette la relazione con il brand e si percepisce una sensazione di inganno. Ecco perché la trasparenza è oggi un punto chiave: dire chiaramente che si sta usando un personaggio virtuale, senza fingere umanità.

Dove funziona (e dove no)

Dove funziona e dove no

Secondo un approfondimento di Il Post pubblicato lo scorso anno, gli influencer AI sembrano essere più efficaci quando si tratta di promuovere prodotti funzionali (accessori, tecnologia, articoli per la casa) rispetto a quelli emozionali (viaggi, food, esperienze personali). Questo perché la loro forza è nel dimostrare, non nel far sognare. Funzionano bene quando devono mostrare un dettaglio, spiegare un funzionamento o trasmettere efficienza.

Al contrario, quando si entra nel campo dell’empatia, quindi storie vere, valori e quotidianità, l’assenza di un vissuto reale diventa evidente. E lì tornano a vincere i creators umani, con le loro imperfezioni, emozioni, pause e contraddizioni.

 

La risposta del pubblico

La risposta del pubblico

Il pubblico si sta abituando alla presenza degli influencer virtuali, ma non senza resistenze. Uno studio del New York Post del 2024 ha rivelato che la Gen Z è in parte affascinata da queste figure, specialmente se legate a brand che si muovono già nel digitale (come nel caso della moda virtuale o del gaming). Tuttavia, la componente umana rimane insostituibile, soprattutto nei formati a maggiore interazione come i reels o le storie.

Il vero problema, forse, non è tanto “l’influencer AI” in sé, quanto il modo in cui viene integrato nella strategia. Se viene percepito come freddo, distante, finto… funziona solo una volta. Poi stanca.

Contenuti organici, reels e advertising: cosa cambia

Contenuti organici, reels e advertising: cosa cambia

Sulle piattaforme social, i contenuti con influencer AI sono molto più comuni nel mondo ads che in quello organico. È facile capire perché: in un contenuto sponsorizzato si può curare tutto. Si lavora di concept, visual, script. È una scena costruita. E, in quel contesto, il personaggio virtuale può brillare.

Diverso è il caso dei reels o dei post organici, dove il pubblico si aspetta, appunto, la relazione. Dove vuole vedere chi c’è dietro. Dove un errore di pronuncia, un gesto spontaneo, una frase non perfetta possono essere la chiave per la connessione con gli utenti.

Un influencer AI può quindi diventare parte del linguaggio del brand, ma difficilmente può sostituire del tutto un volto umano, soprattutto nei formati ad alta empatia.

 

In definitiva: cosa dovrebbero fare i brand?

Cosa dovrebbero fare i brand

Più che chiedersi se usare o non usare un influencer AI, la vera domanda oggi è: che ruolo può avere nella nostra narrazione?

Usare personaggi virtuali ha senso in alcuni casi:

  • per campagne creative che richiedono estetica futuristica o storytelling immersivo;
  • per settori dove il digitale è già parte dell’esperienza del prodotto;
  • per gestire messaggi “tecnici” o contenuti a bassa componente emotiva.

Fondamentale, in tutti questi aspetti, è la coerenza con il brand. Deve esserci chiarezza verso il pubblico e deve esserci, possibilmente, un equilibrio con voci e volti reali.

Perché, se è vero che l’AI può aiutare a costruire nuovi immaginari, è altrettanto vero che non può generare empatia e la relazione, quella vera fatta di fiducia e affidabilità, si costruisce ancora tra esseri umani.

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